A meno di due mesi di distanza dal bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, La Scala inaugura la nuova stagione con una delle sue opere più popolari, e personalmente la mia preferita fra tutti i lavori del maestro di Busseto: "La Traviata". Peccato, però, che non tutto sia filato liscio dal punto di vista artistico, visto che l'allestimento ha sollevato più critiche che consensi. Colpa soprattutto della (contestatissima) regia di Dmitri Tcherniakov che ha "giocato" fin troppo con i rapporti fra i personaggi, ha spogliato l'opera di quasi tutti i suoi elementi emotivi più profondi e ne ha dato un'interpretazione che, soprattutto nel terzo atto (quello della malattia e della morte di Violetta) lascia davvero perplessi: sembra suggerire addirittura che la donna non sia malata di tisi, ma soltanto nevrotica, una pazza da assecondare (e così si spiega l'apparente indifferenza di Alfredo per la sua morte), che si imbottisce di whisky e di psicofarmaci. In precedenza è mancato anche lo sfarzo delle feste (niente maschere per le zingarelle e i mattadori, per esempio), sostituito da una sciatta volgarità (Annina sembra Vanna Marchi, Flora si veste da pellerossa). Simpatica invece la casa di campagna di Alfredo, dove i due amanti si trastullano a fare la pasta con il mattarello e a tagliare zucchine.
Non impeccabile nemmeno la direzione d'orchestra di Daniele Gatti, che a volte rallenta improvvisamente il ritmo mettendo in difficoltà i cantanti (soprattutto il tenore Piotr Beczala, non sempre adeguato, come in "Parigi o cara") e altre volte trasforma il tutto in un valzer ("No, non udrai rimproveri"), esplicitando quello che Verdi aveva lasciato soltanto in sottofondo nella partitura, o forse semplicemente assecondando la visione del regista di un mondo dove rigore e stabilità sono assenti e tutto risulta alterato o squilibrato da droga e volgarità. Musicalmente è da notare che Gatti ha scelto di rifarsi alla versione della Traviata del 1853 e non a quella, rimaneggiata in seguito dal compositore, che viene tradizionalmente eseguita: lo rivela, fra le altre cose, la conclusione con l'ultima battuta che spetta a Grenvil, il dottore, che declama "È spenta!" proprio sulle ultime note (e a questo proposito, chi non ricorda Alberto Sordi in "Mi permette, babbo!"?).
A uscirne bene, ieri sera, sono stati i cantanti: soprattutto Diana Damrau (Violetta, un vero trionfo personale il suo) e il baritono Željko Lucic (Germont), come testimoniano gli applausi che sono scattati copiosi dopo il loro duetto del secondo atto e, ancora di più, dopo "Addio del passato" nel terzo, interpretato dalla soprano tedesca con una voce sottile eppure limpida. Perplessità sui costumi, contemporanei (e questo non è un male) ma raffazzonati e privi di qualsivoglia identità: alle feste di Flora e di Violetta si vedeva di tutto (e vogliamo parlare di quella parrucca?). Nel complesso, non certo una "Traviata" da ricordare.
2 commenti:
Perfettamente d'accordo, solo che io non salvo nemmeno il secondo atto nella pacchiana ambientazione rustica con Alfredo che per calmare i "bollenti spiriti del giovanil ardor" è ridotto a fare la pasta col grembiule!!!
A me la cucina del secondo atto ha divertito, anche se indubbiamente contribuisce anch'essa al "degrado" di questa Traviata.
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