mercoledì 29 dicembre 2010

Destino

Uno dei "pezzi forti" della recente mostra su Salvador Dalì tenutasi a Palazzo Reale a Milano consisteva nella proiezione di un cortometraggio animato di cui pochi conoscevano l'esistenza: è il frutto della collaborazione fra Dalì e Walt Disney, iniziata nel 1946 e poi interrotta per problemi economici prima che il progetto venisse portato a conclusione. Dalì disegnò centinaia di bozzetti per il cortometraggio che, in seguito, è stato portato a termine dagli animatori disneyani soltanto dopo il 1999 (sfruttando anche la computer grafica, non certo disponibile negli anni quaranta, per rendere "tangibili" le visioni paranoico-creative dell'artista spagnolo).

Che due "sognatori" come Dalì e Disney, per quanto attivi in campi così apparentemente diversi (l'arte "colta" il primo, quella "di massa" il secondo), si siano incontrati e abbiano deciso di collaborare, non deve in realtà essere fonte di stupore. La grandezza di entrambi consentiva facilmente loro di superare le barriere che dividevano i rispettivi settori d'appartenenza: Dalì aveva già frequentato il mondo del cinema (aveva lavorato con Luis Buñuel ne "Un chien andalou" e "L'âge d'or", ma anche con Alfred Hitchcock in "Io ti salverò"), mentre Disney amava coinvolgere artisti contemporanei nelle proprie opere (si pensi a "Fantasia", ma anche a numerose "Silly Symphonies").

Il cortometraggio, sulle note della ballata messicana "Destino" di Antonio Dominguez (interpretata dalla cantante Dora Luz), racconta quella che potrebbe essere la storia di un'altra delle tante "principesse" disneyane, almeno dal punto di vista iconografico. Ma il paesaggio in cui la ragazza si muove è quello della piana di Ampurdán, nella cittadina di Figueres, lo stesso che fa da sfondo a tante opere di Dalì, di cui ripropone simboli, immagini e ossessione: la torre di Babele, il campanile, gli obelischi, le forme cangianti. È incredibile come il breve filmato renda giustizia in maniera così evidente a entrambi i suoi ideatori, senza snaturare la visione artistica né dell'uno né dell'altro. Vi si può riconoscere sia il surrealismo daliniano che quello disneyano.

Un libro di Francesca Adamo e Caterina Pennestrì, "Il destino di un incontro" (ed. Mimesis), ripercorre la storia di questo incredibile progetto, il cui risultato è stato presentato in anteprima al Festival dell'Animazione di Annecy nel 2003 ma non è mai (a quanto mi risulta) stato messo in commercio. Per fortuna è possibile guardarlo su YouTube.


giovedì 23 dicembre 2010

Cerebus: Alta società

Con la pubblicazione in italiano del volume "Alta società", che segue di pochi mesi le edizioni in francese e in spagnolo (dopo che per anni l'autore aveva sempre rifiutato di far tradurre il suo lavoro in altre lingue), arriva finalmente nel nostro paese uno dei fumetti più importanti e controversi del panorama indipendente americano del secolo scorso. "Cerebus" – tanto il personaggio quanto la sua storia editoriale – merita infatti un posto di rilievo in una biblioteca ideale della nona arte per le sue caratteristiche uniche e (in tutti i sensi) eccezionali.

Nato nel 1977 come semplice parodia delle storie fantasy di Conan il Barbaro (e in particolare di quelle disegnate da Barry Windsor-Smith, che allora andavano per la maggiore), ma trasformatosi nel giro di pochi mesi in qualcosa di ben più complesso e profondo, il personaggio creato dal canadese Dave Sim è un buffo animale antropomorfo – per la precisione un oritteropo (aardwark) – che vive le sue avventure in un mondo fantasy/medievale diviso fra città-stato e dittature religiose. Dopo un paio d'anni di pubblicazione, mentre era ricoverato in ospedale per un'intossicazione da LSD, Sim decise che avrebbe continuato a realizzare il suo fumetto per trecento albi consecutivi, raccontando tutta la vita del personaggio fino alla sua morte, una cosa che nessuno aveva mai tentato prima. A differenza che in Giappone o in altri paesi, infatti, in America è raro che un singolo autore rimanga alle redini di una collana per lungo tempo, anche se autoprodotta. In più, si pensi che "Cerebus" era un fumetto indipendente, la cui sopravvivenza era difficile in un mercato, quello dei comic book statunitensi, dominato dalle testate supereroistiche delle due grandi major (la Marvel e la DC Comics), che potevano contare su risorse economiche, distributive e pubblicitarie ben superiori. Con ostinazione e tenacia, Sim ha continuato a scrivere e a disegnare l'albo fra alti e bassi per venticinque anni, diventando nel contempo un paladino dell'autopubblicazione e conquistandosi una popolarità sempre maggiore fra gli addetti ai lavori (lo dimostra per esempio il fatto che nel 1993 fu uno dei quattro autori scelti da Todd McFarlane per scrivere i testi di un episodio del suo popolarissimo "Spawn": gli altri tre erano Frank Miller, Alan Moore e Neil Gaiman, e questo la dice lunga sulla considerazione di cui Sim godeva all'epoca!).

Inizialmente dominate dall'umorismo e da frequenti parodie a tutto campo, le vicende di Cerebus si fanno via via più serie, complesse e adulte. I temi trattati arrivano a comprendere l'economia, la politica, la cultura, la religione e il rapporto fra i sessi, al cui riguardo l'autore non esita a esprimere idee radicali e spesso controverse (perlopiù in chiave antifemminista). Rimangono invece costanti i continui riferimenti cinematografici e letterari (dai fratelli Marx a Oscar Wilde, da Woody Allen a Ernest Hemingway), così come – di pari passo con la sofisticazione del linguaggio, che fa ricorso a slang e dialetti di ogni tipo – cresce ininterrottamente la qualità artistica delle tavole (Sim è uno dei primi disegnatori a giocare con il layout delle pagine, capovolgendo o inclinando le vignette, o sfruttando i balloon e persino il lettering per far progredire la narrazione; da un certo punto in poi viene coadiuvato da un assistente, Gerhard, che realizza gli sfondi con un meraviglioso tratteggio). Nella parte finale della serie, dopo essere passato attraverso una personale conversione religiosa (in precedenza era ateo), Sim si lancia in lunghe e contorte dissertazioni teologiche e filosofiche, spesso sacrificando i disegni in favore di pagine e pagine di solo testo, alienandosi gran parte della simpatia di un pubblico che non sembra più disposto a seguirlo. Ma in un modo o nell'altro, riesce ad arrivare al traguardo che si era prefissato: nel 2004 viene pubblicato il numero 300 di "Cerebus", quello in cui il personaggio – ormai invecchiato – muore, il coronamento di un'impresa la cui fruizione comincia adesso a essere possibile anche per i lettori di lingua italiana.

"Alta società", a dire il vero, cronologicamente non è il primo ma il secondo dei volumi che raccolgono tutte le storie dell'oritteropo: ristampa infatti gli albi dal 26 al 50. Anche negli Stati Uniti, comunque, questo è stato il primo arco di storie a essere pubblicato in un volume unico, in quanto si tratta di un'unica vicenda e – secondo Sim – presenta per la prima volta le caratteristiche del Cerebus "maturo". Personalmente non sono d'accordo con questa scelta: se è vero che i toni e soprattutto i disegni delle prime storie sono ancora leggerini e acerbi, è anche vero che la qualità cresce rapidamente nel giro di poche pagine e, soprattutto, che le prime avventure sono fondamentali per comprendere l'evoluzione del personaggio e per introdurre numerosi elementi – compresi alcuni comprimari fondamentali – che verranno successivamente recuperati in maniera sistematica. "Altà società" è perfettamente godibile anche a sé stante, ma leggerlo dopo il primo volume, "Cerebus", sarebbe stato senz'altro meglio.

L'intera serie di 300 albi, per un totale di 6000 pagine, è stata raccolta in inglese in 16 volumi. Speriamo che l'edizione italiana (edita da Black Velvet in un volume cartonato di oltre 500 pagine: traduzione e adattamento mi sembrano buoni, anche se per ora mi sono limitato a sfogliarlo) possa proseguire con il recupero del tomo precedente e la pubblicazione di quelli successivi.

mercoledì 8 dicembre 2010

Die Walküre (La Scala 2010)

Era da una "Aida" di venticinque anni fa, se non ricordo male, che non assistevo a una prima della Scala in televisione. Dopo di allora, gli ascolti (relativamente) bassi di uno spettacolo del genere avevano dissuaso i dirigenti del "servizio pubblico" dal trasmettere ancora in diretta uno degli eventi culturali di maggior interesse e spessore del nostro paese (mentre per Miss Italia e il Festival di Sanremo c'è sempre spazio). E dire che una volta l'opera lirica era il genere "popolare" per eccellenza, e forse lo sarebbe ancora, almeno in parte, se il pubblico non fosse stato "disabituato" a fruirne proprio dalle sciagurate programmazioni televisive degli ultimi decenni. Per fortuna, con l'avvento della tv digitale terrestre e il proliferare di canali tematici, ora c'è spazio per tutti. E così Rai 5, la nuova rete dedicata alla cultura, ha presentato – nel corso di una diretta durata quasi sette ore! – l'attesa inaugurazione della stagione operistica milanese.

Conoscevo poco Wagner, e de "La Valchiria" giusto la trama (e naturalmente il tema musicale, così cinematografico, della Cavalcata!). Devo dire che è stata una sorpresa davvero positiva. A parte un impatto iniziale un po' difficoltoso, le cinque ore dell'opera (con tre lunghi intervalli) sono davvero volate! La carne al fuoco era tanta, e di qualità: antiche saghe mitologiche, personaggi archetipici, riferimenti classici (quanto hanno in comune i miti germanici con quelli greci: Jung aveva ragione!), faide famigliari, dilemmi divini, incesti, sangue, battaglie, amore e magia. E tanta musica, persino esaltante, mai interrotta da un recitativo!

Musicalmente, infatti, l'opera di Wagner è assai diversa da quelle "italiane" cui sono più abituato: non ci sono (quasi) arie o brani singoli, ma un continuo "flusso musicale" che si sviluppa dall'inizio alla fine, coinvolgendo l'ascoltatore a 360 gradi. Ottimi i cantanti, che hanno saputo reggere fino in fondo parti difficili e ad alto dispendio di energie (con nota di merito per la protagonista Nina Stemme). Buona la direzione di Daniel Barenboim (che prima di iniziare ha letto un estratto dalla Costituzione italiana in difesa della cultura, alla presenza del Presidente della Repubblica), tutto sommato suggestive le scenografie (a parte le videoproiezioni di lettere e numeri con effetti digitali alla "Matrix"), non eccellenti invece i costumi (soprattutto quelli delle Valchirie).

Fra due anni, nel 2012, a Sant'Ambrogio sarà di scena il "Sigfrido", ossia il seguito de "La Valchiria" (rispettivamente terza e seconda parte della quadrilogia "L'anello dei Nibelunghi", dopo "L'oro del reno" e prima de "Il crepuscolo degli dei"), e per allora spero di essermi fatto una maggior cultura su Wagner. Magari ne avrò anche parlato sul mio blog dedicato all'argomento, Opera Omnia.

sabato 13 novembre 2010

Pluto

Con "Pluto", manga in otto volumi, Naoki Urasawa (l'autore di "Monster" e "20th Century Boys") estingue un debito verso l'artista che, in gioventù, l'aveva fatto innamorare dei fumetti. La serie è infatti un remake, o meglio una rilettura, di una classica storia di "Astro boy" (Tetsuwan Atom) realizzata da Osamu Tezuka nel 1964. Ai tempi, la serie di Tezuka doveva fare i conti con la popolarità delle opere realizzate dal "rivale" Mitsuteru Yokoyama, a base di duelli fra robot giganti (un "genere" che avrebbe acquisito sempre maggior popolarità nel campo dei manga e degli anime giapponesi), e così l'autore decise di incentrare a sua volta una storia di Atom sui combattimenti: naturalmente la realizzò a modo suo, permeandola di umanesimo per mettere in chiaro come determinare quale fosse "il più grande robot del mondo" (questo era il titolo dell'episodio) soltanto in base alla capacità distruttiva fosse una follia. A distanza di oltre quarant'anni, Urasawa ne ha ripreso l'idea, i personaggi e la trama, naturalmente in versione più "realistica", e ha sfornato un piccolo gioiellino dai toni asimoviani, costruito come un thriller poliziesco e fantapolitico, senza trascurare profonde riflessioni sulle intelligenze artificiali e sulle relazioni fra uomini e macchine. In particolare, ha reso protagonista quello che nella storia originale era solo un comprimario, il poliziotto robotico tedesco Gesicht, mostrando gran parte della vicenda dal suo punto di vista e lasciando ad Atom il compito di intervenire solo nel finale. La storia di Tezuka è stata pubblicata in Italia soltanto di recente, nel quinto numero della collana Planet Manga dedicata ad Astro Boy, consentendo di fare un interessante confronto fra le versioni originali dei personaggi e quelle rivedute da Urasawa: inutile dire che la lettura di entrambi i fumetti è consigliata!


I personaggi di Tezuka (marrone) e Urasawa (nero) a confronto
(clicca per ingrandire).


La scena finale del fumetto nelle due versioni.

giovedì 11 novembre 2010

Nuovo televisore

Non sono un geek che si vanta dei propri acquisti tecnologici, ma visto il gran consumo che faccio di cinema in casa questo dovevo proprio mostrarlo.

Certo, rimane la sensazione di aver fatto il passo più lungo della gamba:

-42 pollici mi sembrano forse troppi, ma probabilmente è tutta questione di abitudine.

-È Full HD, ma l'alta definizione per ora mi interessa poco, visto che non ho certo intenzione di "convertire" gli oltre 1500 DVD della mia collezione in Blu-ray.

-Il vero punto dolente è lo schermo LCD. Dopo decenni di tubo catodico, l'immagine mi pare troppo nitida e i colori troppo accesi, il che toglie ai film il loro aspetto "cinematografico" (sembrano tutti girati con una videocamera digitale). Forse dovrò trafficare un po' con i settaggi di luminosità, contrasto, ecc. Anzi, se qualcuno ha dei consigli al riguardo, è il benvenuto.

venerdì 15 ottobre 2010

Hard disck?

Dal sito del Corriere della Sera:


"Blue-ray"?
"Hard disck"?

Ma soprattutto: l'alta definizione, questa sconosciuta...

(L'articolo era qui. Ora hanno corretto.)

venerdì 24 settembre 2010

Perché non compri un auto?

Oggi, tornando a casa in bici, ho intravisto sulla fiancata di un autobus questo annuncio pubblicitario di eBay Italia. Il visual mostra due uomini in giacca e cravatta: uno che corre trafelato con una valigetta in mano, l'altro che pedala a tutta birra in bicicletta. Lo slogan dice: "Perché non compri un auto? Costa meno di quello che pensi!"

Sul momento mi sono venute molte risposte a quella domanda:
-Per il traffico impossibile un giorno sì e l'altro pure.
-Perché in bici risparmio tempo, e mi tengo pure in forma.
-Perché risparmio i soldi della benzina, del bollo, dell'assicurazione, ecc.
-Perché in bici non inquino.
-Perché non devo dannarmi l'anima due volte al giorno (o anche più) per cercare un parcheggio.

Il tutto sorvolando sul fatto che un'auto io ce l'ho già, soltanto che non la uso per gli spostamenti quotidiani in città ma solo quando mi serve davvero, ossia sulle lunghe distanze, se devo trasportare grossi carichi o altre persone, o per andare nei weekend alla Fogona.

Ma in fondo è inutile cercare di dare una risposta sensata a una domanda stupida di una pubblicità idiota, che dà per scontato che chi va in bici lo fa perché non ha i soldi per comprarsi una macchina: lo stesso luogo comune che spinge sindaci e assessori a non fare piste ciclabili a Milano (o a farle soltanto lungo le direttrici esterne, buone per le scampagnate domenicali ma non per facilitare chi deve andare a scuola e al lavoro); che porta a considerare ancora l'automobile come uno status symbol; e che invece di scoraggiarne l'uso in ogni modo ne incoraggia l'acquisto anche a chi non ne avrebbe bisogno.

Detesto le macchine, non si era capito?
E anche certe pubblicità.

giovedì 23 settembre 2010

L'Iron Man di Tartakovsky

Ecco la copertina alternativa di Genndy Tartakovsky (il mitico creatore de "Il laboratorio di Dexter", nonché scrittore e regista de "Le Superchicche") per Invincible Iron Man Annual #1.

lunedì 12 aprile 2010

Topolino e le tre verità

Leggendo i primi volumi della meravigliosa collana "Gli anni d'oro di Topolino" (che sta uscendo in allegato con il "Corriere della Sera" e sta ristampando tutte le strisce di Floyd Gottfredson), e in particolare la storia del 1939 "Topolino e Robinson Crusoe" (un'avventura non eccezionale ma di grande importanza filologica: è la prima in cui il topo passa dalle classiche iridi con il taglietto ai normali occhi con la pupilla che lo contraddistinguono ancora oggi), ho ripensato a una discussione avuta con alcuni amici con cui ho rivisto di recente (per loro era la prima volta) il capolavoro di Akira Kurosawa "Rashomon". In quel film il regista presenta allo spettatore diverse versioni di uno stesso fatto, narrate dai vari protagonisti, che si contraddicono fra loro. Il messaggio è che non esiste dunque una sola verità, visto che questa varia a seconda del narratore o dell'osservatore, proprio come nella meccanica quantistica!

Quando, nel "dibattito" seguito alla visione del film, ho sottolineato come le immagini di Kurosawa che illustrano le varie versioni siano decisamente "realistiche" e illusorie, lasciando credere allo spettatore che sia vero anche quello che non lo è, uno dei miei amici ha obiettato che, trattandosi di un film e dunque di un'opera di finzione, tutto quello che viene mostrato sullo schermo non è "vero" per definizione ma solo il prodotto della fantasia dello sceneggiatore. Ho cercato di spiegargli la differenza fra "vero" all'interno della narrazione (per esempio: nel mondo di "Guerre stellari", è vero che Darth Vader è il padre di Luke) e al di fuori (nel nostro mondo, non è vero che Darth Vader è il padre di Luke: i due, infatti, non esistono), ma senza troppo successo.


Il ghigno di Mifune in "Rashomon": cos'è la verità?

E veniamo a Topolino. La suddetta storia con Robinson Crusoe mi ha reso consapevole dei tre distinti livelli di "verità" presenti nelle storie di Gottfreddson. Il primo livello è quello degli esordi, delle strip iniziali di Disney/Iwerks e di tutte quelle prodotte nel primo biennio di Floyd (1930-1932), diciamo fino a "Topolino e Orazio nel castello incantato". Il personaggio era nato, com'è noto, nei cortometraggi animati nel 1928, ed era diventato subito una star: a Disney i fumetti non interessavano particolarmente, ma quando nel 1930 il King Features Syndicate (che distribuiva le strisce ai quotidiani) gli chiese di realizzare una strip giornaliera con Mickey Mouse, pensò che sarebbe stata una buona pubblicità per il personaggio e decise di accettare. Il Topolino che compare nelle prime strisce, dunque, è molto simile a quello degli shorts, e non si prende decisamente sul serio. Le sue avventure sono comiche e irrealistiche, e il lettore non dimentica mai che si tratta di un pupazzo disegnato: anche quando si trova in una situazione di pericolo, se precipita da un aereo o è minacciato da un animale feroce, manca la tensione che si proverebbe se si fosse convinti che si tratti di una situazione "vera": sensazione che trova conferma quando il personaggio si salva con una trovata comica che sfida le leggi della fisica o della logica, o addirittura con una battuta. In poche parole, non c'è "verità" in queste avventure, nemmeno all'interno del mondo in cui si svolgono, e chi le legge si diverte ma è sempre e continuamente consapevole che si tratta di una finzione, di un fumetto, che quel personaggio è un topolino antropomorfo disegnato da qualcuno.


"Topolino nell'isola misteriosa": come in un cartoon

Dal 1932 al 1938, per merito della maestria di Gottfredson (e degli sceneggiatori che collaboravano con lui, Ted Osborne e Merrill De Maris), tutto cambia. Le storie si fanno realistiche, l'avventura decolla, e di colpo Topolino non è più un topo disegnato ma un essere umano in carne e ossa, proprio come il Paperino di Barks non sarà un papero umanizzato ma un uomo come noi. Vedendo Topolino di fronte al pericolo, temiamo per lui, e tiriamo un sospiro di sollievo quando si salverà. Se minacciato, crediamo veramente che possa morire (e la morte stessa farà spesso capolino nelle sue storie). Insomma, le sue avventure seguono le stesse leggi del mondo reale. Che il personaggio abbia le orecchie e la coda è secondario, un fatto di nessuna importanza, proprio come non ha importanza che il Paperino o il Paperone di Barks o di Don Rosa abbiano il becco e le piume.


"Topolino e il mostro bianco": drammaticità e verismo

E poi, ecco "Topolino e Robinson Crusoe". La storia precedente, la magnifica "Topolino e la banda dei piombatori", si era segnalata per un livello eccezionale di realismo. Rimasto senza un soldo per il fallimento del mercato azionario, dove aveva investito tutto il suo denaro, Topolino aveva cercato invano un lavoro e aveva dovuto fare i conti con l'onda lunga della Grande Depressione. Quei momenti avevano ancora di più esaltato il livello di "credibilità" interno della strip. Ma all'inizio della nuova storia, c'è un elemento che fa crollare tutto il castello di carte e che di colpo espelle la "verità" dalle strisce del personaggio: Topolino riceve una telefonata da Walt Disney in persona (!) che gli chiede di recarsi agli studios perché c'è un nuovo film da girare (!). E l'avventura con Robinson Crusoe è proprio questo: un "film" in cui Mickey recita semplicemente una parte, come un attore. Durante la storia, dunque, non proveremo mai tensione: quando Topolino e Robinson vengono attaccati dai leoni o fatti prigionieri dai selvaggi, nella nostra testa risuonerà sempre la frase "è solo un film", che ci impedirà di pensare che quelle situazioni siano "vere". Certo, è buffo che invece non ci venga in mente "è solo un fumetto", ma in fondo è anche naturale: quella fase l'abbiamo già superata, come si è visto, sin dal 1932.


"Topolino e Robinson Crusoe": è solo un film!

Insomma, concludiamo: nel corso della produzione di Gottfredson degli anni Trenta si attraversano tre livelli di verità. La prima, "è solo un fumetto" (1930-32), è quella cui si riferiva il mio amico: leggiamo le storie consapevoli che non si tratta che di una finzione. La seconda, "è tutto vero" (1932-38), è quella che domina ancora oggi nella maggior parte delle opere di narrativa, almeno di quelle fatte bene: ed è questa che Kurosawa, con il suo film, ha voluto frantumare: chi non se ne rende conto, non potrà apprezzare la grandezza di "Rashomon", che per la prima volta (anche se c'era già stato Pirandello, of course, e in certo senso anche Orson Welles con "Quarto potere") ha fatto capire che è possibile mostrare contemporaneamente più verità. La terza, "sembra vero ma non lo è" (1939), ne è la logica conseguenza, l'atteggiamento di un lettore/spettatore smaliziato: e l'unico modo per superarlo è quello di affidarsi alla "sospensione dell'incredulità", fingere cioè di credere a qualcosa che palesemente non è "vero". Per godersi "Topolino e Robinson Crusoe", bisogna fingere che non si tratti di un film interpretato da Topolino o almeno dimenticarsene fino ai titoli di coda.

venerdì 9 aprile 2010

Le sigle di JoJo

Come gli appassionati de "Le bizzarre avventure di JoJo" ben sanno, non esiste purtroppo una serie televisiva animata tratta da questo lunghissimo manga. Al massimo sono disponibili due serie di OAV (Original Anime Video, ovvero prodotti direttamente per il mercato dell'home video), rispettivamente di 6 e 7 episodi, che "coprono" soltanto alcune delle avventure della terza serie. Ma qualche appassionato ha pensato di rimediare, realizzando delle ipotetiche sigle dedicate alla quarta, quinta e sesta serie di "JoJo", scimmiottando quelle di altri celebri anime. Pur trattandosi di un lavoro artigianale (vanno un po' a scatti), sono assai divertenti. Purtroppo non sono riuscito a individuare il nome del loro autore. Comunque, eccole qui, nell'ordine:

La sigla della quarta serie, Diamond is Unbreakable (la mia preferita del manga, fra l'altro), è una parodia di Romantic ageruyo, la prima sigla di chiusura di "Dragonball", e vede lo spietato serial killer Yoshikage Kira prendere il posto che nell'originale era di Bulma!


La sigla della quinta serie, Golden Wind (Vento aureo), ambientata completamente in Italia, è un rifacimento di What's up, guys?, dinamica sigla di apertura dell'anime "Bakuretsu hunter".


La sigla della sesta serie, Stone Ocean, la prima con una protagonista femminile e ambientata quasi interamente in un carcere, si rifà infine a Zankoku na tenshi no teeze, la sigla di "Neon Genesis Evangelion".

giovedì 8 aprile 2010

Il cibo in Giappone

In Giappone ho mangiato benissimo: il cibo mi ha colpito per varietà, gusto e bontà. Ci sono ristorantini per tutte le tasche, molti dei quali specializzati in piatti particolari, ed è facile capire perché ai giapponesi piace così tanto mangiare fuori di casa. Nelle foto potete vedere, tra gli altri, yakisoba, ramen, okonomiyaki, tempura, nikuman, sushi, donburi, soba, un bento di carne di manzo, taiyaki, manzo di kobe, udon e gelato al tè verde, yudofu (tofu bollito), yakiniku (carne grigliata), e anche la mia torta di compleanno!


Tonkotsu udon

Ramen teishoku, subuta, tenshinhan

Nikuman

Tako no sunomono

Roll katsu

Okonomiyaki

Tonkotsu ramen

Donabe tofu & gyoza

Sushi mori

Kaisen donburi

Zaru udon & tenpura donburi

Yakizakana teishoku

Gyu bento

Ke-gani, taraba-gani, zuwai-gani

Pasta (in un ristorante italiano a Tokyo)

Taiyaki

Shina soba


Kobe gyu (manzo di Kobe)

Matcha soba & azuki shiratama

Matcha soba

Shiratama-azuki-matcha ice cream

Uji-kintoki kakigori

Yudofu

Goma dofu

Yakiniku

Torta di compleanno

Kaiseki gozen

Shikoku niku udon

Hiyashi udon

Negima yakitori

Sushi

Kuruma ebi furai maki