Per inaugurare la nuova stagione della Scala, il sovrintendente Alexander Pereira e il direttore Riccardo Chailly hanno scelto di riportare in scena un'opera minore di Giuseppe Verdi, la "Giovanna d'Arco", assente dal cartellone milanese da ben 150 anni: l'ultima volta in cui fu rappresentata al Piermarini (il teatro che peraltro vent'anni prima ne aveva commissionato la realizzazione) è stata infatti nel 1865. Proprio a questo anniversario si deve la sua scelta, che per coincidenza si sposa bene con l'attuale predisposizione a omaggiare la Francia dopo i recenti attentati a Parigi. La lunga assenza l'ha resa una delle opere meno conosciute di Verdi. Anch'io non l'avevo mai vista o sentita prima. Eppure musicalmente non sembra affatto un elemento estraneo al corpus verdiano, anzi riecheggia e anticipa molti lavori successivi, dal "Trovatore" (i cori nei primi due atti) a – soprattutto – "La Traviata", con il ruolo del padre accusatore e "guastafeste" che ricorda (anche nel pentimento finale) Giorgio Germont. Un altro motivo per la sua scarsa frequentazione nei repertori dei teatri lirici potrebbe essere la partitura, piuttosto impegnativa in particolare per il soprano. Il libretto, che Temistocle Solera ha adattato da un dramma di Schiller (autore che Verdi ha frequentato ripetutamente, persino più di Shakespeare: si pensi anche a "I masnadieri", a "Luisa Miller" e "Don Carlos") è estremamente ottocentesco, sia per il linguaggio che per i temi patriottici-risorgimentali, ma anche assai in linea con la poetica verdiana. La vicenda è ben lontana da quella storica: Giovanna – anche protagonista di una storia d'amore con il re Carlo VII – non muore sul rogo, da cui riesce a sottrarsi, ma sul campo di battaglia. La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier gioca su questo scostamento dalla realtà, collocando l'intera azione nella camera da letto di Giovanna, come se si immaginasse tutto in una sorta di delirio mistico e religioso, con contorno di angeli e demoni: la vocazione guerriera, l'incontro con re, la gloria in battaglia, l'accusa del padre, il destino finale. Se in altri casi (pensiamo al "Lohengrin" di tre anni fa) derubricare le vicende di un'opera al livello di deliri mentali non fa altro che abbassarle di livello e spogliarle dei loro significati mitici e archetipici, in questo caso invece l'operazione ha il suo perché, ed è favorita fra l'altro dai passaggi in cui Giovanna è tormentata da demoni che solo lei può vedere (il finale del secondo atto, dove streghe e diavoli le danzano attorno durante il duetto d'amore con il re). Grandi applausi e grande successo per tutti: il coro, la regia, i costumi, le scenografie, la direzione esperta di Chailly, e infine i cantanti: a parte due ruoli minori, di fatto il dramma prevede solo tre parti soliste (la solita triade, soprano, tenore e baritono). Anna Netrebko (Giovanna) è una beniamina della Scala e si è confermata la solita mattatrice. Molto bene anche il tenore Francesco Meli (Carlo VII), completamente "dorato" dalla testa ai piedi, mentre il baritono Devid Cecconi (che ha sostituito all'ultimo momento l'indisposto Carlos Alvarez) si è dimostrato all'inizio un po' incerto, trovando poi un proprio registro più intimo per compensare una voce meno potente degli altri.
martedì 8 dicembre 2015
Giovanna d'Arco (La Scala 2015)
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1 commento:
Concordo completamente. In genere sono molto critica riguardo alla moda di utilizzare la lettura psicanalitica o peggio ancora psichiatrica,come un passpartout, buona per tutte le stagioni, quando non si sa più leggere un'opera che ci sembra tanto lontana dallo spirito superficiale del nostro tempo da doverla quasi inevitabilmente etichettare come "roba da matti". Basti per tutti l'esecuzione di qualche anno fa del Lohengrin!
Questa volta la lettura onirica, di un'isterica dilaniata tra il desiderio sessuale, le norme rigide di un Super-io paterno e i desideri di gloria e di riscatto, rende il tutto molto più coerente e credibile del libretto di Solera e della deformazione assurda di Shiller!
Forse un pò esagerata la doratura del re (fa un pò effetto rocher), ma in un sogno-delirio un re tutto d'oro ci può anche stare!
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