Nella stagione in cui si festeggia il doppio bicentenario di Giuseppe Verdi e Richard Wagner (nati entrambi nel 1813), la Scala – teatro "verdiano" per eccellenza – sceglie di dedicare la "prima" a un'opera di quest'ultimo, scatenando così alcune sterili polemiche. "Lohengrin" è comunque considerata da molti la più "italiana" e accessibile, stilisticamente parlando, delle opere del compositore tedesco. La lettura che è andata in scena due giorni fa alla Scala è però assai lontana da quella classica, almeno dal punto della regia e dell'allestimento scenico. Anziché nell'alto medioevo "leggendario" e romantico immaginato da Wagner (la storia si iscrive infatti nel ciclo mitologico del Santo Graal: il protagonista Lohengrin è il figlio di Parsifal, uno dei cavalieri della tavola rotonda), l'azione è stata spostata a un più "concreto" Ottocento, il secolo dello stesso compositore. E l'epica eroica, fantastica e simbolica, lascia il posto a una discutibile interpretazione psicanalitica all'insegna della patologia: Elsa è ritratta come disturbata, epilettica, vittima dei suoi stessi deliri e allucinazioni (il cigno, il più riconoscibile simbolo di quest'opera, sulla scena non compare mai, se non attraverso barlumi di ali e di piume che circondano qua e là la ragazza), mentre per la figura di Lohengrin il regista Claus Guth si è ispirato a Kaspar Hauser, il misterioso personaggio che proprio nell'Ottocento mise scompiglio nella società tedesca, comparendo dal nulla in un villaggio, privo di identità. Anziché un eroe (o addirittura un supereroe, come quelli dei fumetti, con tanto di identità segreta da non svelare mai; oppure ancora, se vogliamo rimanere nel mondo dell'opera, come il Calaf della "Turandot"), Lohengrin è qui un ragazzo fragile e insicuro, che nasce in posizione fetale perché "creato" dalla fantasia di Elsa e dunque disturbato al pari di lei. Si perdono così molti elementi del conflitto (come quello fra magia "bianca" e pura, ovvero il Cristianesimo, e magia "nera" e traditrice, ossia le antiche religioni pagane), che sopravvivono soltanto attraverso il testo del libretto ma non sono giustificati da quello che si vede in scena, a meno che non vogliamo interpretare in tale chiave le dicotomie rappresentate dai costumi (gli abiti speculari – uno bianco e uno nero – di Elsa e di Ortrud: una citazione peraltro, un po' pretestuosa, dal "Gattopardo" di Visconti). Cupa, minimale, difficile da comprendere in certi elementi (il pianoforte) ma non priva di un certo fascino lugubre è la scenografia, con quel tappeto rosso su cui si svolge l'azione e le quinte da cui, come tanti balconi simili ai palchi della stessa Scala, gli astanti assistono alle vicende che avvengono sotto di loro. Se sul regista e sulla sua ostica visione è piovuto qualche fischio, gli applausi hanno invece accolto la direzione musicale di Daniel Barenboim (che con Wagner è a proprio agio) e i cantanti, soprattutto i due protagonisti: il tenore Jonas Kaufmann e il soprano Annette Dasch. Quest'ultima è stata chiamata all'ultimo momento perché tanto la cantante "titolare" quanto la sua sostituta erano influenzate; giunta in mattinata da Berlino, si è esibita praticamente senza provare, per poi ripartirsene il giorno seguente: quasi una storia da film, e meritato trionfo personale. Bene anche René Pape nei panni solenni del re Enrico. Dell'opera – che ascoltavo per la prima volta – mi hanno colpito in particolare il preludio iniziale, il grandioso finale del primo atto, le inquietanti sonorità del secondo, il celebre "coro nuziale", e la toccante sequenza del racconto di Lohengrin sulla propria identità.
domenica 9 dicembre 2012
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2 commenti:
Sono rimasta "indignata" per come è stata bistrattata e tradita l'opera Di Wagner, facendone esattamente l'opposto di quello che la musica e le parole,(sempre di Wagner) indicano. Il luminoso cavaliere ridotto a un povero, fragile ragazzo, caduto per caso sulla terra, in crisi di identità e Elsa ridotta a un'allucinata e psicotica fanciulla, che perde tutto per stupidità congenita?
Scomodare Freud per non rispettare Wagner mi sembra culturalmente pretestuoso.
Siamo di fronte alla assoluta incapacità di capire il Simbolo e al desiderio di degradare tutto quello che non capiamo perchè lontano dalla nostra(quella sì) precarietà quotidiana.
Per fortuna i veri esperti , non la platea mummificata e stereotipata della prima, che deve applaudire sè stessa, lo hanno capito e ho letto recensioni "feroci" o comunque molto critiche.
Personalmente non sono contrario a rivisitazioni e interpretazioni moderne o diverse di opere classiche: altrimenti, staremmo sempre a fare le stesse cose da secoli! Detto questo, a me certe cose non sono dispiaciute (per esempio le scenografie, con la balconata stile "casa da ringhiera" milanese da cui vengono gettati petali di fiori durante il matrimonio). Certo, non è il vero "Lohengrin" come l'aveva immaginato Wagner!
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