Sto leggendo un saggio intitolato "L'eresia della scienza". L'autore, Alan Cromer, un insegnante di fisica teorica scomparso un paio di anni fa, sostiene che la scienza – a differenza per esempio dell'arte o della religione – non sia una parte naturale dello sviluppo dell'umanità né tantomeno un suo elemento indispensabile o fondamentale. Di più: il pensiero scientifico, descritto da Cromer come il tentativo di descrivere analiticamente il mondo che ci circonda, spiegandolo cioè oggettivamente (in contrapposizione con il pensiero associativo e la soggettività tipica dei bambini e delle culture più primitive) andrebbe addirittura contro l'inclinazione naturale dell'uomo e sarebbe sorto soltanto una volta in tutta la storia dell'umanità, nella Grecia classica, grazie a fattori storici unici. Sarebbe poi sopravvissuto per merito di Alessandro Magno che l'ha diffuso fino in oriente: mentre la "fiamma" del pensiero scientifico-oggettivo sarebbe rimasta accesa ad Alessandria prima e nel mondo arabo poi, in Europa essa sarebbe stata spazzata via dalla cultura cristiano-giudaica, caratterizzata da una mentalità soggettiva e dal fascino per il soprannaturale, per poi essere reintrodotta in Occidente soltanto con il rinascimento. Cromer analizza queste due culture (quella greca e quella ebraica) paragonandone i loro testi fondamentali: le opere di Omero (caratterizzate dalla discussione, dall'argomentazione, dai molteplici punti di vista, dalla curiosità, da divinità "umane") e la Bibbia (caratterizzata dalle profezie, dall'imposizione di una verità da non mettere mai in dubbio, dalla mancanza di analisi e razionalità).
Il pensiero scientifico, secondo Cromer, non è innato nell'uomo ma va dunque appreso: non nasce mai spontaneamente ma deve essere coltivato con un'educazione formale. Avrebbe potuto anche potuto non svilupparsi affatto, come infatti è accaduto nelle grandi civiltà della Cina, dell'India o dell'America precolombiana. L'uomo, per sua natura, tenderebbe semmai all'irrazionalità, alla superstizione, all'animismo ("l'attribuzione di aspetti del sé a oggetti ed eventi"), approcci questi sì presenti in ogni cultura, dalle più semplici a quelle moderne. Lo dimostrerebbe anche l'enorme numero di persone che ancora oggi, nelle nostre civiltà tecnologiche, sono superstiziose, credono nell'astrologia o si affidano a pratiche mediche non scientifiche (dall'omeopatia alla psicanalisi, dalla parapsicologia alla cura Di Bella), per non parlare di cartomanti o dispensatori di numeri del lotto. Cromer ha ravvisato questo comportamento persino tra i suoi studenti, che in teoria dovrebbero essere ben consci di cosa sia scientifico e cosa no. Addirittura spesso le verità scientifiche sembrano andare contro il senso comune (persino il funzionamento della forza di gravità, con cui gli uomini hanno avuto a che fare da sempre in prima persona, non è stato compreso pienamente fino ai tempi di Galileo) e talvolta non c'è modo di convincere gli scettici, nemmeno dati alla mano. L'uomo preferisce per sua natura credere alla propria verità interiore e soggettiva, mentre trova difficoltà nel superare la barriera dell'egocentrismo (in senso piagetiano: la confusione fra ciò che fa parte di noi e ciò che ci circonda) e affidarsi all'osservazione oggettiva del mondo esterno. La scienza è "eretica" rispetto alla natura "ortodossa" dell'uomo.
Il libro è stato pubblicato in una collana diretta da Giulio Giorello, che nell'introduzione esordisce citando (con tanto di vignette) una storia di Topolino! Fra i capitoli più affascinanti, ci sono quelli che ripercorrono l'origine delle diverse culture umane, l'origine delle religioni monoteiste e la loro incompatibilità con "l'indagine in modo aperto e indipendente sulle cose". L'autore cerca anche di definire cosa sia la scienza, e perché molte discipline pseudoscientifiche non lo sono, dando un'importanza fondamentale al sistema del peer review e della ricerca del consenso all'interno della comunità scientifica. Gli scienziati, afferma, non sono alchimisti che lavorano da soli e in segreto, ma devono costantemente confrontarsi con i propri colleghi.
Ecco alcuni passaggi più o meno curiosi (alcuni decisamente divertenti, all'interno di un testo comunque serio) che ho voluto annotarmi:
-"Ogni qual volta comincio le lezioni in una classe di nuovi allievi, devo constatare che la mente umana non è stata concepita per studiare la fisica".
-"Sebbene io sia un fisico teorico, ho imparato dai miei colleghi che si occupano di fisica sperimentale che è molto semplice costruire un doppio pendolo: basta chiedere al nostro tecnico Dick Ahlquist di farne uno".
-"Tutti i capi spirituali che sono vissuti presso popolazioni che conoscevano la scrittura – Mosè, il Buddha, Gesù, Maometto, Smith – hanno basato i loro insegnamenti su visioni personali che essi ritenevano di origine soprannaturale".
-"Tutti i bambini sono animisti, e l'animismo continua per tutta la vita, a meno che venga saldamente controllato da una guida culturale contraria".
-"Gli esseri umani, dopo tutto, amano credere agli spiriti e agli dei. La scienza, che chiede loro di vedere le cose per come sono e non per come essi credono che siano, mina una delle passioni primarie dell'uomo".
4 commenti:
Ciao Christian, dunque…quando ho sentito parlare delle idee esposte in questo libro ho subito avvertito curiosità ed interesse. L’ipotesi alla base del libro mi ha immediatamente colpito per la sua particolare logica … logica che mi azzarderei a definire “irrazionale”. In effetti ritenere che una modalità di pensiero dell’essere umano, nello specifico il pensiero scientifico, possa essere considerata come non “parte naturale dello sviluppo dell’umanità” apre a una serie di domande perlomeno curiose: se non parte naturale dello sviluppo dell’umanità allora come è lecito considerarla? Forse parte innaturale dello sviluppo dell’umanità? Si, forse questa è una provocazione ma il punto è che io credo che definire come non naturalmente umano quello che riguarda pochi o anche solo un unico essere umano non è ne logicamente ne eticamente accettabile.
E poi affermare che il pensiero scientifico poteva anche non svilupparsi mi sembra un’ipotesi molto poco scientifica (perché si è oggettivamente sviluppato nell’essere umano). O sbaglio?
Ma al di là di quest’aspetto che, pur centrale nel pensiero dell’autore, a me interessa solo marginalmente, quello che mi aveva stupito era come un libro che affrontava il tema della scienza potesse ancora al giorno d’oggi rivendicare posizioni che ritengono la scienza “il tentativo di descrivere analiticamente il mondo che ci circonda…” senza ampliare le proprie argomentazioni al tema più ampio della conoscenza.
Ora non mi interessa intavolare un dibattito epistemologico sulla scienza o sulla filosofia della scienza, quanto interrogarmi sul valore del pensiero razionale come strumento più valido nella ricerca della conoscenza. Ed è questo che mi sembra passare implicitamente nelle pagine del libro.
A questo proposito penso sia stimolante ricordare alcune conseguenze del teorema dell’indecidibiltà di Gödel. Nel 1931 Gödel dimostrò che dato un qualsiasi sistema assiomatico era sempre possibile trovare una preposizione che facesse parte di quel sistema che fosse vera ma che tuttavia non fosse dimostrabile sulla base degli assiomi su cui si reggeva il sistema stesso.
Una delle applicazioni di questo teorema può riguardare la possibilità di voler studiare l’essere umano, il mondo e l’universo (gli oggetti della conoscenza) con una mente che affronta tale studio solo con il pensiero razionale. Quali saranno le limitazioni di una tale modalità?
Ora non è possibile rispondere a queste domande con precisione ma ritengo poco utile non considerare questi aspetti e insistere ancora a considerare, più o meno implicitamente, il pensiero razionale, oggettivo, scientifico come la via regia verso la conoscenza, condannandosi in questo modo inevitabilmente all’incoerenza o all’incompletezza.
Probabilmente piuttosto che riflettere su cosa possiamo considerare scienza e quali siano le sue caratteristiche, potrebbe risultare più affascinante raccogliere le sfide lanciate anche dalla scoperta dell’inconscio e dalle scienze della complessità e, senza arroccarsi su posizioni parziali o aspettarsi di decifrare tutti gli enigmi dell’esistenza, partire dal superamento della dicotomia tra il pensiero razionale e quello analogico nella ricerca della conoscenza.
Insomma…più o meno volevo dire questo. Sarà che ho anche l’impressione (spiacevole) che ancora (r)esista in Italia il mito della scienza esatta. Ci mancava solo considerarla non essere parte naturale dello sviluppo dell’umanità!
Vabbè,… Io credo piuttosto che bisognerebbe continuare nel tentativo di integrare le due modalità di pensiero proprie dell’essere umano (logico e analogico), senza aver paura di divinità, numeri, provette e fantasmi.
Bis Dann.
Alberto
Ciao Alberto
Penso che quando l'autore dice che il pensiero scientifico avrebbe potuto anche non svilupparsi, intenda che non si tratta di uno sbocco inevitabile dell'evoluzione umana ma che è sorto da fattori storici unici. Ovvero, se preferisci, che una società può progredire e raggiungere anche elevati livelli tecnologici o culturali senza necessarriamente sviluppare il pensiero oggettivo, se le numerose condizioni sociali e mentali alla sua base sono assenti. Ciò naturalmente non ne fa qualcosa di "innaturale" o "non umano", non più di quanto non lo siano la scrittura o l'agricoltura (anch'esse assenti in molte culture o società). Mentre l'arte e la religione invece sorgono praticamente sempre.
Quanto alla definizione della scienza come metodo di conoscenza, e ai limiti del pensiero razionale, in effetti l'autore ha fatto anche a me l'impressione dello scienziato "duro e puro", per il quale la conoscenza scientifica spiega in effetti tutto ciò che è spiegabile (pur riconoscendo che ha dei limiti, ossia che alcune cose non saranno mai spiegabili, e con questo mettiamo a posto anche Gödel). Ti cito per esempio alcuni punti del libro: "Nessuna forza o sostanza che non si trovi nei libri di fisica è necessaria per spiegare alcunché, dalla sintesi degli elementi in una stella che esplode all'evoluzione della vita nei mari della preistoria". Però i suoi strali si rivolgono soprattutto alle religioni e alle pseudoscienze, governate appunto dall'egocentrismo e dalla mancanza di "prove". Non nega l'importanza dell'intuizione, o del pensiero inconscio, anche soltanto come punto di partenza, ma ritiene che la scienza debba poi basarsi soltanto su condizioni rigorose come "prove affidabili e coerenza logica", sulla ripetitibilità o la falsicabilità degli esperimenti, ecc. Si tratta di una disquisizione sui metodi, più che sui fini. Naturalmente il problema sorge quando si vuole elaborare la conoscenza "non scientifica" (ossia i convincimenti egocentrici, che siano religiosi o meno, non supportati da osservazioni oggettive) con i metodi della scienza e pretendere che la cosa regga anche contro l'evidenza. Si hanno così di volta in volta i casi Di Bella o della fusione fredda, o le polemiche sull'omeopatia o sul creazionismo.
Ciao!
Concordo pienamente con Alberto! Soprattutto mi sembra che affermare che il pensiero scientifico poteva anche non svilupparsi è totalmente contraddittorio con tutta l'impalcatura del pensiero dell'autore:
1° come dice giustamente Alberto il pensiero scientifico si è effettivamente sviluppato
2° qualsiasi spiegazione si possa avanzare del perchè si è o non si è sviluppato è poco scientifica in quanto è un processo "non ripetibile" nè "verificabile" sperimentalmente!
Constatare un fenomeno e dargli la prima spiegazione che mi viene in mente non è scientifico! Sono dell'idea che la scienza (come in realtà è stato compreso da decenni) debba riconoscere e difendere la validità del proprio metodo in ambiti precisi (come la medicina!) e lasciare ad altri metodi altri ambiti.
Per quanto mi riguarda credo che la scienza sia frutto della curiosità innata dell'uomo incrociata alla fiducia nella intelligibilità del reale figlia della visione ellenistico-cristiana di un Dio-Verbo (cioè ragione) che regge l'universo.
Ciao!
Per usare le parole esatte dell'autore, e non una mia parafrasi, la tesi del libro è "che lo sviluppo del pensiero scientifico sul nostro pianeta sia stato il risultato di particolari condizioni storiche, non di forze naturali irresistibili". Non mi sembra contraddittoria, ma effettivamente si tratta di una tesi difficile o forse impossibile da dimostrare. Sono d'accordo completamente, invece, sul discorso dell'inutilità di applicare il pensiero scientifico ad ambiti non scientifici, errore in cui cadono spesso sia gli scienziati sia chi scienziato non è ma ha interesse a dare una patina di scientificità alle proprie idee, convinzioni o pregiudizi. Ciao!
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