Leggendo i primi volumi della meravigliosa collana "Gli anni d'oro di Topolino" (che sta uscendo in allegato con il "Corriere della Sera" e sta ristampando tutte le strisce di Floyd Gottfredson), e in particolare la storia del 1939 "Topolino e Robinson Crusoe" (un'avventura non eccezionale ma di grande importanza filologica: è la prima in cui il topo passa dalle classiche iridi con il taglietto ai normali occhi con la pupilla che lo contraddistinguono ancora oggi), ho ripensato a una discussione avuta con alcuni amici con cui ho rivisto di recente (per loro era la prima volta) il capolavoro di Akira Kurosawa "Rashomon". In quel film il regista presenta allo spettatore diverse versioni di uno stesso fatto, narrate dai vari protagonisti, che si contraddicono fra loro. Il messaggio è che non esiste dunque una sola verità, visto che questa varia a seconda del narratore o dell'osservatore, proprio come nella meccanica quantistica!
Quando, nel "dibattito" seguito alla visione del film, ho sottolineato come le immagini di Kurosawa che illustrano le varie versioni siano decisamente "realistiche" e illusorie, lasciando credere allo spettatore che sia vero anche quello che non lo è, uno dei miei amici ha obiettato che, trattandosi di un film e dunque di un'opera di finzione, tutto quello che viene mostrato sullo schermo non è "vero" per definizione ma solo il prodotto della fantasia dello sceneggiatore. Ho cercato di spiegargli la differenza fra "vero" all'interno della narrazione (per esempio: nel mondo di "Guerre stellari", è vero che Darth Vader è il padre di Luke) e al di fuori (nel nostro mondo, non è vero che Darth Vader è il padre di Luke: i due, infatti, non esistono), ma senza troppo successo.
E veniamo a Topolino. La suddetta storia con Robinson Crusoe mi ha reso consapevole dei tre distinti livelli di "verità" presenti nelle storie di Gottfreddson. Il primo livello è quello degli esordi, delle strip iniziali di Disney/Iwerks e di tutte quelle prodotte nel primo biennio di Floyd (1930-1932), diciamo fino a "Topolino e Orazio nel castello incantato". Il personaggio era nato, com'è noto, nei cortometraggi animati nel 1928, ed era diventato subito una star: a Disney i fumetti non interessavano particolarmente, ma quando nel 1930 il King Features Syndicate (che distribuiva le strisce ai quotidiani) gli chiese di realizzare una strip giornaliera con Mickey Mouse, pensò che sarebbe stata una buona pubblicità per il personaggio e decise di accettare. Il Topolino che compare nelle prime strisce, dunque, è molto simile a quello degli shorts, e non si prende decisamente sul serio. Le sue avventure sono comiche e irrealistiche, e il lettore non dimentica mai che si tratta di un pupazzo disegnato: anche quando si trova in una situazione di pericolo, se precipita da un aereo o è minacciato da un animale feroce, manca la tensione che si proverebbe se si fosse convinti che si tratti di una situazione "vera": sensazione che trova conferma quando il personaggio si salva con una trovata comica che sfida le leggi della fisica o della logica, o addirittura con una battuta. In poche parole, non c'è "verità" in queste avventure, nemmeno all'interno del mondo in cui si svolgono, e chi le legge si diverte ma è sempre e continuamente consapevole che si tratta di una finzione, di un fumetto, che quel personaggio è un topolino antropomorfo disegnato da qualcuno.
Dal 1932 al 1938, per merito della maestria di Gottfredson (e degli sceneggiatori che collaboravano con lui, Ted Osborne e Merrill De Maris), tutto cambia. Le storie si fanno realistiche, l'avventura decolla, e di colpo Topolino non è più un topo disegnato ma un essere umano in carne e ossa, proprio come il Paperino di Barks non sarà un papero umanizzato ma un uomo come noi. Vedendo Topolino di fronte al pericolo, temiamo per lui, e tiriamo un sospiro di sollievo quando si salverà. Se minacciato, crediamo veramente che possa morire (e la morte stessa farà spesso capolino nelle sue storie). Insomma, le sue avventure seguono le stesse leggi del mondo reale. Che il personaggio abbia le orecchie e la coda è secondario, un fatto di nessuna importanza, proprio come non ha importanza che il Paperino o il Paperone di Barks o di Don Rosa abbiano il becco e le piume.
E poi, ecco "Topolino e Robinson Crusoe". La storia precedente, la magnifica "Topolino e la banda dei piombatori", si era segnalata per un livello eccezionale di realismo. Rimasto senza un soldo per il fallimento del mercato azionario, dove aveva investito tutto il suo denaro, Topolino aveva cercato invano un lavoro e aveva dovuto fare i conti con l'onda lunga della Grande Depressione. Quei momenti avevano ancora di più esaltato il livello di "credibilità" interno della strip. Ma all'inizio della nuova storia, c'è un elemento che fa crollare tutto il castello di carte e che di colpo espelle la "verità" dalle strisce del personaggio: Topolino riceve una telefonata da Walt Disney in persona (!) che gli chiede di recarsi agli studios perché c'è un nuovo film da girare (!). E l'avventura con Robinson Crusoe è proprio questo: un "film" in cui Mickey recita semplicemente una parte, come un attore. Durante la storia, dunque, non proveremo mai tensione: quando Topolino e Robinson vengono attaccati dai leoni o fatti prigionieri dai selvaggi, nella nostra testa risuonerà sempre la frase "è solo un film", che ci impedirà di pensare che quelle situazioni siano "vere". Certo, è buffo che invece non ci venga in mente "è solo un fumetto", ma in fondo è anche naturale: quella fase l'abbiamo già superata, come si è visto, sin dal 1932.
Insomma, concludiamo: nel corso della produzione di Gottfredson degli anni Trenta si attraversano tre livelli di verità. La prima, "è solo un fumetto" (1930-32), è quella cui si riferiva il mio amico: leggiamo le storie consapevoli che non si tratta che di una finzione. La seconda, "è tutto vero" (1932-38), è quella che domina ancora oggi nella maggior parte delle opere di narrativa, almeno di quelle fatte bene: ed è questa che Kurosawa, con il suo film, ha voluto frantumare: chi non se ne rende conto, non potrà apprezzare la grandezza di "Rashomon", che per la prima volta (anche se c'era già stato Pirandello, of course, e in certo senso anche Orson Welles con "Quarto potere") ha fatto capire che è possibile mostrare contemporaneamente più verità. La terza, "sembra vero ma non lo è" (1939), ne è la logica conseguenza, l'atteggiamento di un lettore/spettatore smaliziato: e l'unico modo per superarlo è quello di affidarsi alla "sospensione dell'incredulità", fingere cioè di credere a qualcosa che palesemente non è "vero". Per godersi "Topolino e Robinson Crusoe", bisogna fingere che non si tratti di un film interpretato da Topolino o almeno dimenticarsene fino ai titoli di coda.
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