Quest’anno la stagione della Scala si è aperta con “La forza del destino” di Verdi, opera che mancava come inaugurazione del Piermarini dal 1965. Nonostante la sua fama (compresa la superstizione secondo la quale porterebbe sfortuna agli interpreti e agli esecutori), è un’opera che non avevo mai visto, anche se naturalmente ne conoscevo i temi musicali più celebri, tutti raccolti nella bella ouverture, molti dei quali usati abbondantemente in pubblicità e al cinema (un esempio su tutti, il dittico “Jean de Florette”/”Manon delle sorgenti” di Claude Berri). Mi è piaciuta parecchio, soprattutto dal secondo atto in poi (il primo, molto breve, è solo “di riscaldamento”, anche se contiene gli eventi che mettono in moto la vicenda). La regia di Leo Muscato e la scenografia di Federica Parolini hanno messo bene in luce i tanti eventi tragici, sia individuali/personali che storico/sociali, che si intrecciano ripetutamente: in particolare la guerra fa continuamente da sottofondo alla trama principale e delle vicende personali dei nostri protagonisti (un po’ come capitava nel film “Il buono, il brutto, il cattivo”!), rispecchiando nel quadro collettivo e generale i tormenti dei singoli individui. Interessante come si passi da suo elogio ingenuo all’inizio (“È bella la guerra, evviva la guerra!”) alla rappresentazione di tutte le sue conseguenze nefaste (morti, feriti, affamati e orde di disperati che chiedono la carità). L’allestimento sceglie di rappresentarla come uno dei grandi conflitti del ventesimo secolo (la collocazione temporale di questa versione scaligera è piuttosto vaga, o meglio astratta – vedi anche i costumi che spaziano fra vari periodi storici – ma fortunatamente lo era a modo suo anche quella del testo originale, e l’esito non è stato straniante), aiutata da scenografie semplici ma molto suggestive, dove la trovata principale è stata quella del palco rotante, una sorta di “ruota del destino” che ha consentito di mantenere sempre fluida la narrazione anche quando il libretto prevedeva numerosi cambi di scena, col risultato di non frammentare mai l’opera e anzi di donargli una certa dinamicità anche nei momenti che in teoria sarebbero stati più statici.
Il libretto di Francesco Maria Piave, decimo e ultimo da lui scritto per Verdi, è tratto da un lavoro teatrale dello spagnolo Ángel de Saavedra che insiste sui temi del fato (ovviamente!), dell'onore, della vendetta, della colpa, della redenzione e dell'espiazione: notevoli, in mezzo a tante “sfighe” e tragedie volute un fato inesorabile (spesso sfidato a parole dagli stessi personaggi, che poi vengono regolarmente puniti), i momenti semicomici offerti da personaggi minori come Fra Melitone e la zingara Preziosilla, ai quali Piave mette in bocca battute ricche di giochi di parole (“Pace! Pece!” o “Rataplan, pim, pam, pum!”) che sembrano quasi uscire da un’opera buffa di Rossini. Questo accumulo di registri (la tragedia con la sua intensità, la critica storica alla guerra, la satira sociale che colpisce sia le classi nobili che i religiosi, i mercanti e i poveri, l’enfasi religiosa quasi manzoniana, e in generale il mix fra solenne, comico, sacro e profano) permea l’intera opera, sgretolandone l’apparente graniticità e rendendola molto più interessante di quanto sembrerebbe a leggerne semplicemente la trama, il che ne spiega la fortuna che ha sempre riscosso presso il pubblico e la critica. In generale tutti i personaggi, maggiori o minori, sono ottimamente caratterizzati sia dal libretto che dalla partitura verdiana, a volte con tocchi quasi impercettibili (si pensi al “razzismo” verso l’origine mesoamericana di Don Alvaro). Nel cast di questo Sant’Ambrogio, come previsto, la superstar assoluta è stata la soprano Anna Netrebko nei panni di Leonora, all’ennesima presenza alla prima della Scala. Grandi ovazioni per lei al termine dei suoi momenti clou nel secondo (“Madre, pietosa vergine” e “La vergine degli angeli”) e nel quarto atto (“Pace, pace, mio Dio!”). Degli altri interpreti, bene soprattutto il baritono Ludovic Tézier (Don Carlo), il baritono Marco Filippo Romano (Fra Melitone) e il basso Alexander Vinogradov (il Padre Guardiano), mentre il tenore Brian Jagde nel ruolo di Don Alvaro ha svolto il suo compito senza infamia ma anche senza particolari guizzi. Eccellente come sempre il coro della Scala, mentre Riccardo Chailly è sembrato spesso sorridente durante la sua direzione. Al termine dalla visione mi è rimasta la voglia di rivedere questa e altre versioni della stessa opera (e mi sono rimasti anche i principali temi musicali in testa, alcuni fra i più memorabili mai scritti da Verdi).
domenica 8 dicembre 2024
La forza del destino (La Scala 2024)
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