lunedì 21 marzo 2011

Un flauto magico (Piccolo 2011)

È un "Flauto magico" molto minimalista, quello messo in scena da Peter Brook al Piccolo Teatro Strehler di Milano: al posto dell'orchestra, solo un pianoforte; il libretto ridotto alla sua essenzialità, con molti ruoli di contorno tagliati (non ci sono le tre damigelle, né i tre ragazzi, e nemmeno il coro); sul palco, una scenografia semplicissima, composta da una ventina di canne di bambù mobili che possono rappresentare, di volta in volta, la prigione in cui è rinchiusa Pamina o le porte del tempio della saggezza; costumi anch'essi molto semplici (niente penne e piume per Papageno, abiti principeschi per Tamino, o vistose tuniche per Sarastro); l'assenza totale di simboli massonici o piramidi, che contestualizzano ma anche appesantiscono l'ambientazione, qui restituita a una dimensione fiabesca "senza tempo": potrebbe svolgersi in ogni luogo e in ogni epoca; un bi-(e tri-)linguismo che svolge la stessa funzione di rendere universale la vicenda (i brani cantati restano, fortunatamente, in tedesco; ma i recitativi, tra l'altro assai più spigliati, sono in francese, con qualche parola in italiano); l'aggiunta di due personaggi che fungono da "spiriti", o anche da kuroko (gli assistenti di scena del teatro giapponese, coloro che spostano gli oggetti sul palco), e ricoprono tutti i ruoli minori (i sacerdoti, gli armigeri, gli schiavi, gli animali, e così via).

Insomma, l'intento di Brook è quello di togliere la pesantezza e tutti gli orpelli che oltre duecento anni di storia hanno depositato sull'opera e di ritornare – complice la musica di Mozart, la cui efficacia sta anche nella semplicità* – agli elementi basici di questo capolavoro, che già quando fu scritto si poneva in contrapposizione con la pomposità dell'opera seria italiana e rappresentava una forma di teatro popolare, "da camera" (il Singspiel). Il regista britannico lo aveva già fatto con il suo "Don Giovanni", ma stavolta compie un passo ancora più in avanti: allora, infatti, aveva rappresentato l'opera integralmente; stavolta la prende, la sfronda, la rimodella e ne fa qualcosa di nuovo (non a caso il titolo dell'allestimento è "Un flauto magico", con l'articolo indeterminativo), in grado di emozionare come se fosse stata scritta oggi.

Ottimi gli interpreti, con qualche riserva per alcuni cantanti che – forse per adeguarsi allo spirito minimalista di Brook – sfoggiano una voce sì intonata ma un po' flebile, probabilmente poco udibile dagli spettatori seduti più lontano. Stando in terza fila, per fortuna, mi sono goduto appieno anche la loro interpretazione. Il pubblico (con la presenza di molti giovani) ha apprezzato, riservando naturalmente i maggiori applausi al personaggio che da sempre catalizza di più le simpatie, ovvero Papageno. Da notare l'inserimento di un'aria per Papagena non presente nell'opera originale (è un Lied dello stesso Mozart).



* A proposito dell'apparente semplicità della musica di Mozart, A.C. Douglas (critico musicale con una predilezione per Wagner), scrive nel suo blog Sounds & Fury:

If one glances at — and we do mean merely glances at, not study — a few pages of a Wagner score of any of the mature works, one is not in the least surprised that the music sounds as it does. If, however, one does the same with the score of a mature Mozart opera, one cannot help but be surprised that the music sounds as it does. We mean, the notation on those pages looks almost childlike-simple, and a mere glance leads one to expect music that sounds not much more profound or affecting than, say, a first-year-harmony student's orchestration of "Jingle Bells" or some other such trivial stuff. And when that childlike-simple-looking notation produces music as sublime and transcendent as, say, "Dove sono" or "Contessa perdono" one is not merely surprised but astonished and fully ready to believe that, indeed, Mozart was — had to be — nothing less than God's very amanuensis.
Tradotto in italiano:
Se si guardano – e intendo solo guardare, non studiare – le pagine della partitura di una qualsiasi delle opere mature di Wagner, non ci si stupisce per nulla che la musica suoni in quel modo. Se però si fa lo stesso con la partitura di un'opera matura di Mozart, non si può che rimanere sorpresi della musica che ne esce. In altre parole, la notazione su quelle pagine sembra così semplice e infantile che a un semplice sguardo ci si aspetterebbe musica non più profonda o commovente di, diciamo, un'orchestrazione di "Jingle Bells" composta da uno studente di armonia del primo anno, o roba triviale di questo tipo. E quando quella partitura così semplice produce musica sublime e trascendente come, per esempio, "Dove sono" o "Contessa, perdono", non si rimane semplicemente sorpresi ma stupefatti, e si crede fermamente che Mozart sia stato – deve esserlo stato! – niente di meno che l'amanuense personale di Dio.

3 commenti:

Hiromi ha detto...

Perche non insericse quella musica bella?? dai metterla! cosi sentirla di nuovo.ciao ciao

Marisa ha detto...

Non posso che applaudire questa versione così essenziale e “pulita” .
Sono particolarmente contenta che una scelta così “minimalista” abbia fatto piazza pulita dell'ambientazione massonica, su cui in genere si punta e che viene celebrata spesso come la parte più profonda dell'opera. Spero di avere occasione di parlarne e di approfondire i vari apetti di quest'opera grandiosa in altro contesto, per es. sull'altro tuo blog.

Christian ha detto...

Ho appena riattivato "Opera Omnia": non appena avrò finito di parlare de "La traviata", ci dedichereo proprio al "Flauto magico"! ^^